Pensando alla scuola
Silenzio. Una costante fatta di innumerevoli componenti. Tutto ruota attorno al concetto di assenza. Una catarsi inversa che produce spiriti e demoni di ogni genere, incastonati in un surreale scenario quotidiano.
Vittime di se stessi, incapaci di procedere oltre. Mescolati, uno dopo l’altro in un vorticare infinito e lugubre di assordante, provocante silenzio. Qualsiasi cosa esca da quel vorticare si spalma, con incedere denso e lento, sui muri di questo luogo sordo alle lamentele costanti di chi lo abita.
Di chi lo abitava. Prima. Quando l’efficacia strabordante di quell’intricato dedalo di stanze e corridoi era ancora pregno di significato.
Quel significato, oggi, è andato perso. Stravolto. Mutato. Si è incarnato in qualcos’altro, incapace di procedere con quella sicurezza che lo caratterizzava, nonostante le difficoltà.
I pericoli, ora, sono altri. Sono personificati in qualcosa di ineffabile. Di inafferrabile. Lo sgomento è palpabile, si insinua in ogni meandro. In ogni anfratto. Pure quelli luminosi.
E’ tutto abbandonato, dentro di noi. Fuori da noi. La scintilla di vita che bruciava già flebile in questi antri è andata persa in un contesto che difficilmente tornerà simile alle sue origini. Qualcosa di profondo è cambiato. La stessa natura delle cose, ora, ha un altro significato. Come se cambiassero le parole. I termini.
Le parole, però, sono sempre le stesse. E’ cambiato il modo di approcciarvisi. In maniera più netta, più trasversale, concisa. Disarmante. Quello che una volta era un luogo di festa e di socialità è diventato un luogo freddo, assorbito nelle proprie cavità interstiziali, come qualcosa che non si può salvare.
Eppure, è possibile, forse. Occorre cercare di afferrare il nuovo strato sociale e plasmarlo in un contesto fin’ora considerato alieno. Qualunque sia il risultato esso varrà lo sforzo fatto. Si deve andare avanti, non tornare indietro.
L’indietro è svanito. Dissolto nella nebbia di una memoria resistente al cambiamento ma che, giocoforza, dovrà accettarlo radicalmente.
Il rumore di una volta, dirompente e assordante, ha lasciato il posto ad un altro rumore, più intimo e precario. Quello fatto di mille sussurri che ora echeggia già come lontano e inarrivabile. Un rumore preoccupato, acerbo, incapace di esprimersi con forza come il precedente.
E’ cambiato il riferimento. La stella polare ci governava è diventata una supernova. La deflagrazione sociale è ancora al di là dall’essere percepita appieno. Se ne vedono le prime avvisaglie, forse. Fatte, appunto, di sussurri e sguardi malcelati dietro a bavagli spersonalizzanti.
La cura indispensabile rende il paziente totalmente differente. Stravolto. Incapace di riconoscersi. Il dramma più tragico è quello che tutto ciò già provoca in questi luoghi.
Eppure, un barlume c’è. Forse è già stato riacceso. Si legge nei volti di quanti, ogni giorno da settimane, tentano di riportare la normalità fra le mura del castello. Spinti da un’ossessionante ricerca delle cose di ieri.
Si trovano, le cose di ieri, ancora. Solo, hanno cambiato forma e aspetto. Hanno incredibilmente variato la loro proiezione su questo piano inclinato che è diventata la quotidianità.
Assumono la forma di lunghe ombre che avvolgono ogni cosa attorno a loro. Ma a ben guardare quelle ombre non sono maledette. Sono semplicemente diverse.
Questo, all’apparenza infinito cosmo di esperienze artificiali che ci si appresta ad esplorare ci sta insegnando che non serve a nulla cercare negli altri quello che abbiamo già. Non trovandolo, finiremmo solo con il restarci male. Nessuno ha quello che abbiamo noi. E’ imperativo scoprire cosa possa offrire l’altro, in questo contesto. Per farlo nostro adesso.
Solo così le ombre torneranno ad essere quelle di sempre. Solo regolando la stortura di questo piano attuale potremo ritornare ad essere com’eravamo. Portandoci dietro un carico esistenziale non indifferente, fatto di ipocrisie sgretolate e consapevolezze carpite nell’intimità, come un bacio rubato contro ogni regola di prevenzione.
La quotidianità delle cose minuscole sarà quella che farà pendere la bilancia dall’altra parte, alla fine. Volenti o nolenti lo stiamo già sfiorando. Assaporando.
Anche in queste mura, ora dopo ora. Gli sguardi diventano più vispi. Le paure svaniscono. La luce si riaccende nei cuori. Piano piano. Mano a mano.
Il giorno in cui si tornerà a volare con la fantasia è ancora lontano ma non è in dubbio il suo arrivo. Si tratta di resistere e di mordere la polvere. Di sputarla. Continuamente. Di farsi piccoli e grandi allo stesso tempo.
Si tratta di smuovere le colonne portanti emotive di questi luoghi finché le ombre non torneranno ad essere solo sui muri, invece di occuparne gli spazi.
Quel giorno, allora, torneremo a farci vivi.